L’Associazione “L'Altra Campanella” di Casatenovo  ha indetto, per questo anno scolastico, un concorso di scrittura creativa dal titolo “Casatenovo in giallo”, a cui hanno partecipato i nostri alunni, individualmente o in gruppo, delle classi seconde della Scuola secondaria di primo grado.

A vincere il concorso è stata, con un lavoro di gruppo,  la classe II B. Fabrizio Colonna,  presidente dell’Associazione L’Altra Campanella, ha letto la motivazione:
"Il racconto rispetta le caratteristiche strutturali del giallo. La trama non contiene pause; l'intreccio è organico; le sequenze narrative descrittive e i dialoghi sono ben amalgamati. I personaggi sono caratterizzati in modo adeguato. Il ritmo è rapido per il prevalere di frasi brevi. Il lessico è coerente con ciò che vuole esprimere".

 

Il secondo posto se lo è aggiudicato M. Serighelli, classe II A: “Carattere peculiare di questo racconto è l'originalità della trama; l'intreccio è avvincente per il susseguirsi dei colpi di scena che raggiunge il suo apice nell'inaspettato finale. I personaggi sono ben caratterizzati e adeguati al ruolo loro assegnato”.

 

"Il racconto presenta tutti gli elementi caratteristici del giallo, lo contraddistinguono la familiarità dell'ambientazione e la quotidianità delle azioni dei personaggi. La trama ha una logica ben evidente compreso il colpo di scena finale" è la motivazione che la giuria ha formulato per il racconto di F. Vergani, classe II D, classificatosi come terzo.

 

Il premio, erogato dall'Associazione, è stato di  € 200 atti all'acquisto di materiale per la biblioteca scolastica.

 

Pubblichiamo i racconti selezionati dalla giuria:

Primo classificato:             

Ore cinque e trenta del mattino. Cristina indossò il camice bianco e recuperò la borsetta appesa all’attaccapanni vicino alla porta d’ingresso del suo monolocale in una palazzina accanto a Piazza della Repubblica a Casatenovo. Faceva l’infermiera nel reparto di cardiologia presso l’ospedale di Merate, e detestava arrivare in ritardo sul posto di lavoro. Spense le luci e chiuse la porta. Quindi scese le scale e raggiunse di corsa la sua auto. Aprì la portiera, salì a bordo e girò la chiave nel cruscotto. L’auto si mosse lentamente. Poi, ad un tratto si fermò. C’era qualcosa che non andava. Sembrava che ci fosse un ostacolo. Cristina premette a fondo il pedale e all’improvviso la parte anteriore dell’auto sobbalzò. La ragazza spalancò gli occhi, quasi spaventata. Il suo primo pensiero fu quello di avere schiacciato un animale. Si concesse qualche secondo per dare un’occhiata sotto l’auto. Quando il fascio di luce prodotto dai fari dell’automobile illuminò la scena, Cristina portò la mano alla bocca e soffocò un urlo. Ciò che vide a terra era il corpo di un uomo. Era disteso sull’asfalto con il braccio destro allungato verso l’esterno e il volto coperto da un pezzo di stoffa. Ma non solo: nel palmo della sua mano stringeva un pezzo di carne sanguinolenta. Cosa poteva essere? In quel momento Cristina non riuscì a darsi una spiegazione. Se ne accorse poco dopo, quando notò un profondo squarcio sul lato sinistro del petto dell’uomo. Il suo istinto da infermiera la portò ad una sola conclusione: quel pezzo di carne non era altro che il cuore stesso dell’uomo che giaceva a terra ormai privo di vita. Da brava infermiera, Cristina si chinò, allungò la mano e tolse il pezzo di stoffa che copriva il volto. Questa volta lo sgomento venne sostituito dalle lacrime. Lacrime di dolore. Quell’uomo steso a terra non era altri che il suo attuale fidanzato. “Ma come poteva essere successa una cosa simile?”, pensò Cristina. Solo poche ore prima le aveva dato la buonanotte con un bacio. Chi poteva avere fatto una cosa del genere? Non le rimase altro da fare che recuperare il cellulare e chiamare i Carabinieri. Entrò in casa e, a fatica, si sedette sul divano. Non era in grado di ricordare cosa avesse detto, ma sapeva di avere composto il “112” e di avere parlato con il sottoufficiale di servizio. Il maresciallo Brivio bussò alla porta, ma la aprì senza aspettare risposta. Cristina non si mosse neanche, con le mani sulla faccia e la coperta a nasconderla del tutto. Il maresciallo si schiarì la voce, come per attirare l’attenzione.
Cristina cercò di controllare il suono sordo del suo pianto e trovò  la voce solo per chiedere cosa fosse successo.  L’orologio segnava ormai le 6:30. Il sole aveva cancellato il buio della notte dal prato e dal corpo del povero Marco, l’uomo della sua vita, che adesso non c’era più.
Cristina ricordò quanto le stava ripetendo Angela, la caposala, da settimane, senza che lei le desse veramente ascolto. Insisteva riguardo alle attenzioni “eccessive”  che il  professor Meroni, primario di chirurgia, aveva nei suoi confronti.
Si ricordò delle domande del professore circa le sue abitudini e i suoi orari, della sensazione inspiegabile di essere seguita.
Il maresciallo Brivio tornò in caserma con gli occhi pesanti di sonno e l’idea certa di una “pista” da seguire.
Il giorno stesso, nella sala d’attesa dello studio del professor Meroni, aspettando di essere ricevuto, cercò di raccogliere le informazioni che aveva. Il medico era uno dei professionisti più in vista della provincia e accusarlo di un delitto così cruento, senza la sufficiente certezza,  avrebbe voluto dire esporsi al rischio di un richiamo ufficiale e ad un brusco stop della sua carriera.
Quando entrò nello studio, il professore, evidentemente turbato,  lo aspettava “in punta di sedia” dietro la scrivania.
“Questa mattina, prima che sorgesse il sole, è stato ucciso Marco Fumagalli. Lei ha un alibi per questa notte? ”.
“Ho passato l’intera notte in ospedale  compilando cartelle cliniche”, rispose il professore, passandosi nervosamente la  mano tra i capelli.
Il maresciallo, con un fare eccessivamente gentile disse : “ I suoi collaboratori mi hanno raccontato una cosa diversa. Lei è uscito dall'ospedale poco dopo la signorina Cristina e le telecamere del servizio di sicurezza testimoniano che è rientrato solo dopo le sei…”.
Il gelo scese nello studio, ma prima che dalla sua bocca uscisse una qualsiasi giustificazione, la mano destra aveva già aperto il primo cassetto della scrivania alla quale sedeva.
Il maresciallo Brivio aveva la fama di un uomo di legge che non ama l’uso della “forza”; aveva esperienza sufficiente per intuire che il medico stava per prendere un’arma.
Così, con un rapido movimento, tolse al professore la pistola che, ormai,  aveva in pugno.
“Le consiglio di evitare altri scherzi e di dirmi come è andata .”
Il professor Meroni si abbandonò sullo schienale della poltrona lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.  
“Mi dica, professore. La vittima aveva il suo stesso cuore in mano. Perché ha fatto una cosa simile?”.
“Lui non la meritava, Cristina è una donna troppo speciale per un uomo così banale.  Io sono l’unico in grado di amarla come merita.”
“L’amore, professore” – disse il maresciallo Brivio – “ non ammazza nessuno. Mai.”
Erano passati più di cinquant’anni da quell’orribile mattinata e Cristina sedeva alla finestra guardando gli alberi ingialliti lungo la strada. Attorno a lei le foto di una vita intera. Accanto a queste, le foto di un uomo, sempre sorridente, sempre giovane: Marco.
“L’amore non ammazza nessuno” - pensò Cristina –“ma nemmeno si fa ammazzare!” 

(Classe II B, Scuola Secondaria di promo grado)

 

Secondo classificato

Casatenovo.
Ore sei del mattino.
Luigi il netturbino parcheggiò il suo furgoncino nella piazzola di sosta di fronte alla scuola Maria Gaetana Agnesi.
A quell’ora non c’era mai anima viva nei dintorni. La tranquillità del luogo trasmetteva ogni volta una strana sensazione di inquietudine. Di tanto in tanto a Luigi capitava di incontrare qualcuno intento a praticare jogging prima di andare in ufficio. Ma quel giorno stranamente non si era ancora fatto vivo nessuno. Forse un presagio? Un avvertimento? Chissà...
Quella mattina lo aspettava un lavoro decisamente noioso e al tempo stesso faticoso. Infatti, una volta alla settimana, l’incarico del netturbino era di ramazzare il lungo marciapiede che partiva da via San Giacomo fino al confine con la località Galgiana.
Luigi scese dal mezzo e si stiracchiò i muscoli soffocando uno sbadiglio. Dopodiché raggiunse la parte posteriore del furgone e recuperò la scopa di saggina.
Si mise subito al lavoro e mezz’ora più tardi aveva già formato dei mucchietti di spazzatura, che successivamente avrebbe raccolto con la pala per poi caricarli sul cassone del suo furgoncino. Si stava apprestando a formare un altro mucchietto quando, con la coda dell’occhio, si accorse che dietro un cespuglio c’era una specie di cumulo di stracci abbandonati.
Luigi sbuffò, disgustato. Ma il suo senso del dovere lo incitò a prodigarsi nella rimozione di quel lascito indesiderato commesso probabilmente da qualche incivile.
Non appena raggiunse il cumulo di stracci e si rese conto di cosa realmente fosse, Luigi sbiancò in viso e sentì il cuore battergli all’impazzata nel petto. Arretrò di qualche passo e rimase immobile.
Sgomento, terrore, vertigini. La fulminea reazione del netturbino fu devastante. Non aveva mai visto una cosa simile in vita sua: davanti ai suoi occhi, si presentò una scena raccapricciante. Era un uomo, disteso supino e con la pelle del corpo completamente pallida. Nella penombra del mattino sembrava di assistere all’apparizione di uno spettro. Purtroppo, però, non si trattava di un fantasma, ma di un cadavere.
Luigi rimase per qualche istante pietrificato dallo spavento. Poi fece appello a tutto il coraggio che aveva e si chinò sul corpo.
La prima cosa che notò furono le orbite degli occhi. Erano vuote, vacue, scure e profonde. Qualcuno o qualcosa gli aveva cavato gli organi molli di uno dei cinque sensi più importanti per un essere umano: la vista.
Forse, pensò Luigi, un randagio affamato, oppure un uccello rapace in cerca di cibo per i suoi piccoli.
Guardò meglio. No, nessun animale, decretò il netturbino. I contorni delle orbite erano lineari, precisi. I tessuti non aveva subito lacerazioni violente. Lo scempio commesso sul volto di quel cadavere era indubbiamente opera dell’uomo.
Lo sguardo di Luigi passò in rassegna anche il collo. Vide una striscia rossastra e ben definita poco sotto la gola. Facile dedurne che si trattava di una ferita causata da un laccio di cuoio o da una corda. A quel poveretto non solo gli avevano cavato gli occhi, ma lo aveva anche strangolato.
A quel punto, Luigi infilò la mano nella tasca dei pantaloni e afferrò con mano tremante il cellulare. Compose in fretta il numero e chiamò i carabinieri.
Quando chiuse la comunicazione si rese conto di una realtà sconcertante. Sì, non poteva essere altrimenti: nella tranquilla cittadina di Casatenovo si nascondeva  un assassino.
Luigi tremante tentò di spiegare, ma l’unica cosa che disse fu: -un morto- poi cadde.
Il maresciallo Garavaglia quella mattina era di pattuglia a Rogoredo con il brigadiere Rossini. Improvvisamente il maresciallo sussultò: -Rossini ferma! Eccolo- indicando il povero Luigi accasciato su quel marciapiede che aveva da poco spazzato. Rossini inchiodò, scesero dall’auto e Garavaglia sbiancò. Rossini si avvicinò e a stento trattenne coniati di vomito per l’orrendo spettacolo. -calma non toccate niente!- tuonò Garavaglia.
In pochi minuti arrivarono altre auto dei carabinieri, il PM e il medico legale.
Il corpo era intatto, c’erano segni attorno ai polsi e al collo, tutto indicava che il poveretto fosse vittima di un omicidio premeditato. Al termine dei rilievi il medico affermò: -potrò fare chiarezza sulla dinamica solo dopo l’autopsia, ma sono piuttosto convinto che il corpo sia morto altrove-. Il corpo fu portato via, e la zona transennata.
Il mattino seguente Garavaglia era nel suo ufficio, una parete era diventata un tabellone dove appuntava di continuo post-it sulle immagini del delitto, ora mancava un nome ma il PM diede via libera per diffondere le immagini della vittima, ed ecco che in meno di un’ora si presentò un uomo alla caserma accompagnato da Rossini: era il proprietario di un albergo a Malgrate e disse che un tale Marcello Riva aveva soggiornato presso la sua struttura e non si era più presentato da tre giorni.
I tre si recarono subito a visionare la stanza. Dai documenti risultò sposato, contattarono la moglie che era convinta che suo marito fosse in Cina per lavoro. La moglie confermò l’identità dell’uomo. Rossini improvvisamente disse: -Garavaglia, ho scoperto che la vittima era iscritta ad un sito di incontri- li interruppe il brigadiere –ora mi basterà scoprire con chi è avvenuto l’ultimo incontro- in un attimo Rossini risalì all’ultimo appuntamento dell’uomo, avvenuto con una ragazza di Rogoredo. Ora non restava che farle visita.
I due ringraziarono e si recarono a casa della famiglia Moriondo, Rossini citofonò e ad aprire fu una ragazza ventenne, bellissima, non sembrò sorpresa alla vista dei due carabinieri, poi arrivò anche il padre.
Garavaglia lo informò che la figlia aveva intrapreso una relazione virtuale con la vittima, lei subito si sconvolse e gridò – non è possibile! era lui?- poi proseguì –dovevamo incontrarci in un locale a Oggiono, ma non si presentò, pensai che non volesse tradire la moglie e verso le 23.00 sono rientrata. Mio padre può confermarlo- si affrettò ad aggiungere. Il professore annuì senza mai guardare la figlia, a quel punto li ringraziarono e chiesero di rimanere a disposizione delle autorità, poi Elisabetta li accompagnò fuori dalla casa e rivolgendosi a Rossini disse –lei ha dei bellissimi occhi- un brivido gli percorse la schiena e uscì rapidamente.
Arrivati in caserma un altro episodio sconvolgente li aspettava: a Nizza un delitto era stato commesso con lo stesso sconvolgente epilogo: un giovane fu trovato morto con gli occhi cavati. Una cosa notò Rossini: in vita entrambi avevano gli occhi azzurri!
Garavaglia non poteva fare a meno di pensare ai Moriondo, decise allora di interrogare i vicini per saperne di più.
La signora Pina diede sfogo al pettegolezzo. Non vedeva di buon occhio il professore. Improvvisamente Garavaglia ebbe una fulminea reazione: -mi scusi signora, lei per caso sa dove si trovi la moglie del professore ora?- la signora puntò gli occhietti scuri verso l’alto, dopo pochi secondi sobbalzò –sì è in Sardegna da dei parenti- disse lei con fare orgoglioso. La ringraziarono e risalirono sull’auto.
Rossini si pose una domanda, e cioè si trovava davvero in Sardegna?
Cercò quindi il numero di telefono di alcuni suoi parenti ed ogni dubbio venne chiarito: erano vent’anni che non la vedevano! Decisero di tornare a fargli visita.
La porta si spalancò e davanti a essa i Moriondo. Rossini si affrettò a chiedere dove si trovasse la signora e loro risposero che era in Sardegna. Vennero subito smentiti, messi alle strette e il professore crollò -sono stato io, mi avrebbe lasciato e non potevo permetterglielo- Rossini guardò Garavaglia -dove si trova?- l’uomo a fil di voce disse -in taverna-. appena entrati notò che c’era un odore forte, soffocante e rivolta verso la bocca di lupo che dava sul pozzo in giardino, una sedia a dondolo, e lì seduta il corpo decomposto della signora Moriondo. La cosa più inquietante erano gli occhi azzurri appartenuti a Riva che avevano sostituito quelli decomposti della povera donna, d’altronde l’unica cosa rassicurante in una vita di violenze era lo sguardo di sua madre ed Elisabetta non poteva farne a meno. Il padre per paura di essere scoperto aveva coperto e copriva le folli gesta della ragazza, la paura del carcere o la consapevolezza di essere stato un mostro e di averne creato uno. Nel pozzo intanto giaceva la prossima vittima, terrorizzato, legato e imbavagliato con i suoi occhi azzurri pietrificati dalla paura.

(M. Serighelli, classe II A, Scuola Secondaria di primo grado)