"Si voltò e con un sospiro guardò dietro di sé: il sentiero era silenzioso e vuoto...". Da questo incipit hanno preso vita fantasiose storie scritte dagli alunni della classe I A della scuola secondaria. Buona lettura a tutti...
Racconto di Tommaso Bresciani
"Si voltò e con un sospiro guardò dietro di sé: il sentiero era silenzioso e vuoto..." Era riuscito a seminarli. Non c'era anima viva. Ormai s'era addentrato nel bosco di parecchi chilometri. Era sicuro di non averli più alle spalle. Correva da parecchie ore ed era stanco: aveva le gambe che gli cadevano a pezzi.
Cometa era un ragazzo di quattordici anni, un po' più alto e magro della media.
Indossava scarpa blu e rosse, aveva calzettoni che arrivavano fino alle ginocchia, coperti da una tuta consumata rossa e gialla.
Indossava dei piccoli guanti gialli e una felpa arancio e bordò.
Capelli rosso sangue e una spruzzatine di lentiggini bianche coloravano il viso.
Aveva orecchie piccole e graziose, zigomi pronunciati, bocca piccola e occhi ridotti a fessure da fargli assumere un'aria furba, astuta e testarda.
Infilò una mano in tasca e ne tirò fuori una strana lucertolina molto piccola, arancione e rosa, con la coda azzurrognola color cielo, con puntini bianchi: l'aveva raccolta durante la stremante corsa.
Cometa aveva fame: non mangiava da parecchi giorni, da quando s'era incamminato per uscire dall'Utar, regione dell'Atshhnäpïrh, che in celese, lingua che parlava Cometa e lingua di Stato dell'Atshhnäpïrh, significava "casa del popolo".
Cometa frugò in tasca in cerca di qualcosa da far mangiare a quella specie di lucertola, alla quale diede il nome di "Testacucita".
Trovò un pezzetto di pane e lo offrì all’animaletto che lo assaporò, ma subito dopo ritrasse la lingua disgustato.
Cometa, triste che Testacucita l'avesse rifiutato, prese il pezzo di pane e lo mangiò.
Disse poi a Testacucita - Sei stata sgarbata -.
La lucertola non rispose, ma Cometa riuscì lo stesso a comprenderla.
Bisognava cercare qualcos'altro da dargli, magari qualche insetto.
Prima però doveva uscire dal bosco perché si stava facendo tardi e di notte arrivano i Ruzzijä, delle specie di lupi con gambe da cerbiatto, ma pesanti quanto delle mucche.
I Ruzzijä avevano denti affilati come quelli degli ippopotami che servivano a lacerare i corpi.
Si nutrivano di intestini, soprattutto quelli umani. Avevano gli occhi illuminati come lampadine, per vedere al buio.
Sicuro di poter uscire dal bosco prima di notte, Cometa cominciò ad incamminarsi.
Appena giunta mezzanotte in puntò cominciò a sentire dietro di se uno scalpiccio sempre più forte e un bagliore sempre più intenso.
Quasi gli venne un infarto: erano arrivati!
Infilò Testacucita in tasca e si mise a correre. L’animaletto, facendosi capire, disse a Cometa che se avesse continuato a correre i Ruzzijä l'avrebbero calpestato e ridotto a brandelli; sarebbe stato più sicuro salire su un albero.
Cometa ascoltò Testacucita e si arrampicò lungo un grosso tronco di un alto albero.
Quella notte fu tranquilla.
Cometa, testardo com'era, s'era perso nel bosco più grande del mondo: gli alberi si estendevano per miliardi di chilometri.
Il giorno dopo Cometa era ancora più affamato, ma fortunatamente lì vicino erano passati i Ruzzijä che avevano ucciso qualche cerbiatto del quale avevano mangiato solo l'intestino.
Con enorme sforzo sollevò il cerbiatto e lo portò al sicuro nella tana che aveva scoperto il giorno prima, dopo aver spostato un grande sasso.
Testacucita in un solo giorno era cresciuta di una spanna e mezza.
Aveva già le zampe di qualche centimetro e aveva una cresta nera. Dalla bocca uscivano un paio di zanne affilate molto spaventose.
Appena Cometa portò dentro il cerbiatto, e lo appoggiò per terra, Testacucita gli saltò sopra e cominciò a mordicchiargli una coscia.
Si capì così che la lucertolina era carnivora.
Testacucita, appena staccato un pezzo di carne dal cerbiatto, lo divorò e subito crebbe ancora di qualche centimetro.
Cometa si spaventò: era grande già due spanne.
Il ragazzo cercò di prenderla e sentì che la sua pancia s'era allargata e ormai pesava qualche chilo.
Dopo una settimana era lunga un paio di metri e pesava un centinaio di chili.
Aveva zanne affilate come rasoi, ma era comunque un cucciolone e ogni sera si accoccolava su Cometa che lo abbracciava dolcemente. Vivevano benissimo.
Un giorno, dopo che Cometa rientrò con un altro cerbiatto, Testacucita non gli andò incontro, come al solito, per mangiare la carne.
Cometa, pensando che non stesse bene, lasciò cadere la carne e corse verso di lui. Appena si avvicinò di qualche passo vide dietro Testacucita un centinaio di lucertoline.
Solo allora capì che Testacucita era una femmina.
Allora gli cambiò nome e la chiamò Aquila.
I suoi cuccioli erano carinissimi; li accompagnò insieme a lei fuori dalla tana. Aquila era ormai alta nove metri e lunga trenta.
Vedendo crescere davanti a sè i novantadue cuccioli, prese una decisione importante: sarebbe rimasto con Aquila e i suoi cuccioli per tutta al vita.
A trent'anni Cometa era un uomo talmente forte che sapeva sradicare un albero a mani nude.
Aquila era diventata lunga oltre duecento metri e alta quaranta. Anche i suoi cuccioli erano tanto grandi.
Cometa a novantun anni morì, ma non ebbe una morte triste; morì felice di aver vissuto bene con le sue grandi e care lucertole.
Racconto di Sara Viganò
"Si voltò e con un sospiro guardò dietro di sé: il sentiero era silenzioso e vuoto..." .Era tanto che correva e ormai intorno a lei non si sentiva ne vedeva niente. Hezel era stanca, ma sapeva che non doveva fermarsi: doveva raggiungere il portale il più presto possibile.
Era una ragazza bellissima, con dei magnifici capelli biondo ramato raccolti in una graziosa coda da un elastico un tempo giallo; gli occhi erano grigi come la nube di un temporale d'autunno, ma luminosi come la luce di una mattina estiva.
Indossava una maglietta arancione, sporca e strappata, sopra la quale portava pezzi di un’armatura greca che probabilmente le pesava molto. In mano aveva una spada di bronzo, lucida come uno specchio; l'elsa era scolpita con motivi floreali. Sulla lama c'erano incise lettere in greco antico; la parola che formavano era " KAPTOPRIS ", che significa specchio.
Appena raggiunse la radura magica non trovò nulla: intorno a lei regnava il silenzio più totale e non c'era traccia di portali.
Hezel era troppo stanca per continuare il viaggio, allora tolse l'armatura e si sdraiò all'ombra di un albero dove si addormentò. Gli incubi vennero come sempre a trovarla.
Questa volta erano strani più del solito. Si trovava in un deserto vuoto e caldo. L'unico suono che si sentiva era il nitrito supplichevole di un cavallo.
All'improvviso il sogno cambiò, era davanti a un fuoco con di fianco un ragazzo che le poggiava il braccio sulla spalla e la stringeva a se. Era Jason, suo fratello; tutto ciò era impossibile perché era morto due anni prima durante un terribile terremoto.
Il luogo dove si trovavano era familiare: sì, lei c'era già stata. Conosceva bene quel posto: era la sua casa!
All'improvviso si svegliò.
Trovò davanti a sé una donna: aveva lunghi capelli castani e gli occhi verdi come piccoli smeraldi al sole; indossava una veste bianca ed immacolata. La donna era circondata da una lucente aurea.
Disse a Hezel, con tono serioso, di essere prudente, di non arrendersi mai e di non farsi offuscare la mente dai ricordi del passato.
Poi si voltò e scomparve.
Hezel era scioccata, ma riuscì comunque ad alzarsi; si rimise l'armatura, impugnò la spada e iniziò a camminare.
Era ancora sbigottita dalla donna che le era appena comparsa.
Le sue parole continuavano a girarle per la testa, come una trottola impazzita; doveva stare attenta: i ricordi non dovevano offuscarle il pensiero.
Dopo ore di cammino Hezel trovò un portale: era alto più di due metri ed emanava una strana luce oro.
Sperando di capitare in un luogo dove avrebbe finalmente potuto iniziare una nuova vita, entrò.
Oltrepassato il portale si ritrovò in un vastissimo deserto con sabbia rosastra ed un forte sole che faceva brillare la vasta distesa. Era il luogo del suo sogno; sentì anche il nitrito: il cavallo era li da qualche parte.
Quando fu in cima a una duna, lo vide; a produrre quel verso era un magnifico Pegaso nero con ali lunghe due metri ciascuna.
Hezel gli si avvicinò e, senza ricevere alcuna resistenza, gli accarezzò il muso.
Vicino all' occhio sinistro c'era una piccola macchiolina bianca che somigliava a un gufo; decise di chiamarlo Blakowl.
Tra loro c'era una particolare sintonia. Insieme sorvolarono l'intero deserto, finché Hezel non scorse un altro portale.
Chiese a Blakowl di scendere e questo si fermò vicino all'aura dorata.
Entrarono insieme; in pochi secondi si ritrovarono in una città, ma non come tutte le altre: i palazzi erano piegati, storti e di tutte le forme più assurde.
Qui era in atto una guerra. Hezel scorse dei ragazzi come lei che stavano combattendo e come per istinto si getto nella mischia.
Ad essere combattuti non erano uomini, bensì giganti.
Hezel mirò fendenti e schivò colpi, sempre accompagnata dal suo fedele Blakowl.
Non capiva perché aveva questo istinto di combattimento, ma per qualche motivo non poteva farne a meno.
Dopo settimane di lotte ininterrotte la guerra finì: i giganti erano stai sconfitti. Tra i sopravvissuti Hezel scorse qualcuno di familiare...fin troppo familiare. Impossibile...non poteva essere lui: era morto...
Scese da Blakowl piena di lacrime, sperando fosse tutto vero...chiamò Jason; lui di scatto si girò e appena vide il volto della sorella, la abbracciò forte.
Hezel gli fece tantissime domande, ma lui le disse solo che le avrebbe spiegato tutto più tardi e che l'importante, in quel momento, era averla finalmente ritrovata.
Insieme tornarono a casa e anche il suo sogno, quello nella radura, si era realizzato.
Da quel giorno i due si promisero che non si sarebbero mai più lasciati. Su di loro continuò a vegliare Blakowl, il magnifico Pegaso nero con ali lunghe due metri ciascuna.
Racconto di Bianca Veronese
"Si voltò e con un sospiro guardò dietro di sé: il sentiero era silenzioso e vuoto...". Lilla aspettava, come al solito, sua cugina Lola. Erano nate lo stesso giorno, il 7 luglio, e stavano sempre insieme. Lola e Lilla.
Vivevano in un villaggio che si estendeva su una pianura circondata da incantevoli boschi.
La loro città era bellissima: ogni casa era di un colore diverso, con imponenti porte e finestre dalle quali pendevano vasi di piante rampicanti che rendevano ancora più rigogliosi i giardini.
Nel centro della città c'era una grande piazza rotonda, tappezzata di piastrelline di marmo bianco, sulla quale si affacciavano i negozietti e le panetterie con le tendine che cambiavano colore e i tavolini di ferro battuto che si sistemavano da soli.
Ogni cittadino possedeva un potere personale: per esempio la fioraia, con lo sfiorare delle dita sui petali, faceva ricrescere le piante; c'era chi dominava i venti, chi gli oggetti, chi volava...
Ma anche se la cittadina era allegra e originale, le due cugine, amavano fare lunghe passeggiate nei boschi.
Oggi, però, erano lì per un preciso motivo. Non avevano tanto tempo, ma Lola si perdeva ad annusare tutti i fiori possibili e ad osservare i chiacchieriattoli (degli scoiattoli parlanti) chiacchierare vivacemente tra loro.
Quindi Lillà aspettava Lola guardandosi attorno. Il cielo era azzurro, gli aceri e le betulle, con la loro liscia corteccia bianca e le foglie verdi e sottili, si ergevano tanto in alto quasi volessero sfiorare le nuvole.
A terra si allungavano, verso i bordi del sentiero sabbioso, migliaia di piante di ogni genere, con i loro strani fiori, creando un arcobaleno di sfumature, emanando profumi incredibili.
Mentre ascoltava il pigolio di un uccello vide Lola arrivare.
Insieme corsero al grande fico che nascondeva, all'interno della corteccia, il loro rifugio.
Le due cugine appoggiarono una mano al tronco e, dopo aver canticchiato una parola, e fatto cadere una polverina, per incantesimo si ritrovarono all'interno.
Questo era il loro potere: cantano o suonando potevano compiere qualsiasi magia.
Ora si erano ritrovate nella stanza di legno bianco con tanti specchi rotondi che avevano creato.
C'erano entrate per evocare un loro amico senza farsi vedere.
Così si strinsero le mani e, tirandosi forte, intonarono la canzone.
Quando si fermarono davanti a loro apparse il maestoso drago, Ringo: era molto grande, con un pelo lungo e folto, di un bianco argentato, con una lunga coda cosparsa di punte dorate e dei grandi occhi azzurri; aveva le orecchie a penzoloni e un aria innocente e spensierata.
Il drago sapeva tutto e quindi aveva capito: le cugine lo avevano trascinato lì per chiedergli come mai era già il trenta novembre e l'inverno non era ancora arrivato.
Nel loro paese già a inizio ottobre arrivava la neve, mentre ora sembrava ancora estate .
Lui disse, con la sua voce potente, che se entro l'uno dicembre la neve non fosse scesa sul villaggio, il mondo sarebbe rimasto bloccato per sempre.
Disse poi, prima di scomparire, che solo un potente incantesimo avrebbe riportato tutto alla normalità.
Le ragazze notarono che della polverina color smeraldo era caduta per terra. La raccolsero e corsero in biblioteca sperando di trovare qualche indicazione.
Purtroppo i libri erano di malumore perciò si comportarono da dispettosi: si chiudevano di colpo e salivano fino in cima agli scaffali per non farsi prendere, giravano le pagine a caso, facevano cadere un sacco di polvere; mischiavo le lettere per non far capire le frasi a chi leggeva.
Stavano per rassegnarsi quando l'anziana bibliotecaria fermò tutto con lo schiocco delle dita. Poi si avvicinò alle ragazze e con una voce debole sussurrò: "Qui non troverete niente, andate al grande pino nel centro della piazza e salvateci prima che sia troppo tardi; mi raccomando, la polvere contiene un potere che solo voi potete usare".
Le due non se lo fecero ripetere due volte: corsero verso l'albero che veniva addobbato sempre il 30 Novembre e, secondo la tradizione, ogni giorno, fino all'annuale festa del Contratto, bisogna riunirsi attorno e intrattenersi con spettacoli di magia. Così c'era una grande folla e Lola e Lilla faticavano a farsi largo.
Non sapevano cosa fare. Improvvisamente una luce fece risplendere i loro occhi azzurri che risaltavano sulla pelle chiarissima e sui lunghi capelli castani.
Presero la polverina color smeraldo dalle dalle tasche, si guardarono, si strinsero le mani e...
La loro voce angelica rieccheggiò sulla piazza; dei flauti traversi iniziarono a suonare sotto il loro comando.
Più cantavano, più forte era l'emozione nei loro cuori. Ad un tratto i loro piedi si staccarono da terra e furono avvolti da una brina che diventò color smeraldo quando la polvere che stringevano tra le mani volò in aria come tanti spruzzi; poi... le due cugine si ritrovarono sdraiate per terra, come tutta la gente: il loro incantesimo aveva scatenato una grande botta e, con l'aiuto della polvere, erano riuscite a riportare la neve.
La città era ricoperta da quel soffice mantello bianco che rendeva l'atmosfera candida e allegra. Tutta la gente iniziò a parlare, gioire. L'inverno era tornato; le due cugine ce l'avevano fatta!
Ora l'atmosfera era finalmente serena.
Racconto di Elena Limonta
"Si voltò e con un sospiro guardò dietro di sé: il sentiero era silenzioso e vuoto...". Fiore, la nostra cagnolina di quattro mesi, non era ancora tornata.
L'avevano rapita la notte scorsa, probabilmente era stato un mago della notte. Non poteva essere stato nessun altro.
La zia le aveva spiegato che i maghi e la streghe della notte potevano distruggere e rendersi invisibili; quelli del tramonto potevano comandare l'aria e le nuvole; quelli del giorno potevano creare e illuminare il buio; quelli del tramonto si divertivano ad annaffiare e curare le piante, quelli della notte a lavorare il ferro, quelli del giorno ad aiutare gli altri illuminando i vicoli bui e creando oggetti utili...
Fra tutti, solo un mago della notte avrebbe potuto far scomparire la serratura della mia finestra e rubarmi Fiore.
Alcuni, come mamma e papà, sostenevano che fosse scappata da sola, ma la zia mi appoggiava.
Probabilmente sapevano qualcosa che io non avrei mai conosciuto.
Sapevo che comunque Fiore non mi avrebbe mai lasciata e così continuai a cercare; ormai avevo perlustrato ogni singola via del villaggio, ogni bosco e sentiero della valle.
Ormai la notte si avvicinava, sapevo di essere una strega della notte, presto avrei potuto alzarmi i volo e dare un ultimo sguardo attorno alle mura che circondavano il villaggio.
Cercai per tutta la notte, non mi ero accorta che era ormai l'alba e così precipitai a terra mentre il sole sorgeva "accidenti!"
Corsi a casa a prepararmi per la scuola.
Per tutto il giorno non feci altro che pensare a dove potesse essere la mia dolce cagnolina, con quel bel musetto simpatico e le macchiette marroni che risaltano sul pelo color grano.
Durante l'intervallo mi sarebbe tanto piaciuto trasformare quella stupida Linda in una rana rugosa.
Peccato che a scuola era vietata la magia. "Non darle retta", diceva la mia migliore amica mentre lei per l'ennesima volta ripeteva una stupida canzoncina sulla scomparsa di Fiore.
Menta mi sussurrò all' orecchio: "Tanto arriverà il giorno in cui aboliranno questa regola".
Finite le lezioni organizzammo un piano di ricerca e come prima tappa scegliemmo la casa di Pesca, un'amica straordinaria, un rarissimo caso. Era una strega dell' alba. Aveva un potere in grado di fare qualsiasi cosa, come se riunisse in sé i poteri di tutti. Forse aveva visto qualcosa a giudicare dalla sua faccia.
"Guardate!" disse lei indicando una baracca di quelle che usavano i pescatori per riporre le reti e altri attrezzi del mestiere.
In un istante ci trasformammo in topolini e la seguimmo.
Non capi subito che cosa volesse mostrarmi, ma dopo che si fu avvicinata al signor Brancorso compresi il suo ragionamento.
Il signor Brancorso era un tipo che si divertiva a dar fastidio a tutti, spargeva voci false, faceva arrabbiare la gente...alcuni pensavano che fosse colpa dei suoi antenati se da secoli la discendenza dei "Folinti" e dei "Della Selva" non si parlavano.
"Ma non è un mago!" Squittì Menta, "potrebbe essere in combutta con qualcuno!" ribatté Pesca.
Lo seguimmo per tutto il giorno, ma niente!
La rimessa conteneva solo vecchie canne da pesca e lui ne lanciò dentro un'altra, enorme e lunghissima con la quale avrebbe potuto pescare una foca.
Poi tornò a casa sua, da quella antipatica della signora Ortica, sua moglie, e dalla smorfiosa Linda.
Non avevano comportamenti sospetti, presero il tè, risero, scherzarono e alla fine, quando stavamo per andarcene, litigarono.
Lei, la signora Ortica, sbraitava e strillava che voleva una sciarpa di piume di fenice, di fenice d'acqua.
Ero piena di domande sulla fenice d'acqua, però stavo per ritrasformarmi e così schizzai via, veloce come il vento.
Non credo che sarebbero stati contenti di scoprirmi in casa loro.
Le mie amiche invece erano molto più brave di me; era giorno e i loro poteri avevano effetti maggiori.
Feci in tempo a correre fino alla spiaggia e lì ripresi le mie vere sembianze. Notai in fondo alla baia, dove gli scogli abbracciavano il mare, il signor Giglio Della Selva che teneva in mano una canna da pesca, proprio quella che avevo visto nella baracca.
Al suo fianco c'era qualcosa, uno scoglio più chiaro degli altri oppure... a mano a mano che mi avvicinavo la figurina, quella strana cosa che avevo visto di fianco a lui, si faceva più nitida, era Fiore!
Intanto...
Intanto a casa Brancorso i due topolini avevano sentito il terribile piano che stavano progettando.
Volevano obbligare Fiore a fiutare la fenice d'acqua, una creatura magica che nessuno conosceva o aveva mai visto.
Le leggende però narrano di una magica creatura che solca i nostri mari ogni secolo.
Nessuno ci credeva, però una volta aveva perso una delle sue piume e loro ora erano decisi a trovarla e a catturarla.
Narrava la leggenda che solo un cucciolo più piccolo di un anno avrebbe potuto fiutarla attraverso le correnti.
Scoperte queste cose si trasformarono in gabbiani e volarono velocissime verso gli scogli.
Mi trovarono mentre, con le sembianze di una tigre, lottavo furiosamente con il signor Della Selva.
Riuscimmo insieme a strappargli Fiore di mano e scappammo insieme a casa.
Tutto però non sarebbe stato possibile senza l'aiuto della fenice che, saltata fuori dalle acque lo aveva distratto, infradiciandolo da capo a piedi.
Si rituffò in mare e non si fece rivedere mai più; veramente una creatura fantastica che rimarrà nella mia mente per sempre.