Quello era il giorno della partenza. Ero molto emozionato e allo stesso momento spaventato. Tutti si erano radunati al porto. Sembrava un pezzo di legno pieno di formiche che ci salutavano.

Vennero perfino il re e la regina.

Alcune persone ci dissero addio. Capivo la loro paura.  Tutti hanno timore di ciò che non sanno, soprattutto se, come in questo caso, sarebbero potuti morire. Tutti sanno quanto può essere spietato il mare.

Vidi bambini che abbracciavano i padri e i fratelli che si sarebbero imbarcati a breve, e ragazze piangere per loro. Io non avevo nessuno. Nessuno era venuto a salutare quel ragazzetto dai capelli neri e dagli occhi scuri. Io non ero nessuno. Ma quel viaggio avrebbe cambiato le cose, sarei stato un eroe.  

 

Fui assegnato alla Nina, una piccola caravella di legno chiaro, già carica di uomini e cavalli, con le vele bianche come le nuvole che quel giorno spuntavano come fiori nel cielo azzurrissimo e con una ragazza incisa nella prua, che ci avrebbe guidato verso l’avventura.  

Mi affrettai a salire. Slegarono le navi dal porto. Eravamo salpati verso l'ignoto.  

Il mare era calmo. Sembrava di navigare su uno specchio. L' acqua brillava come le gemme più preziose e pesciolini d' argento nuotavano sotto di noi. Il vento fresco era piacevole e portava sul viso gocce come baci.  

Facemmo tutti insieme una cena, nella grande sala da pranzo. Sul tavolo di quercia c'era pane, carne, insalata e qualche biscotto. C'era chi cantava e chi, più timido, mangiava in silenzio. Non ricordo bene i loro nomi, a parte quello di Matthew, il mio compagno di stanza. 

 

La navigazione procedeva tranquilla. Erano passati trenta giorni. 

Il mare era pescoso. C'era perfino qualcuno che credeva di aver visto una sirena. Ovviamente una bugia. Credo. Io invece vidi (davvero) delle balene che cantavano, cantavano per noi. 

Era il quarantesimo giorno quando iniziò il disastro. 

Le onde si alzavano, il vento soffiava impetuoso, i pesci scomparvero e i cavalli erano più agitati che mai. Matthew avvistò delle nuvole nere come l'inchiostro e minacciose come un branco di lupi. Iniziò a piovere. Il sole si oscurò, coperto da quel fumo portatore di tuoni e saette. 

Una tempesta. 

 

Un fulmine colpì la stiva tagliando il legno come fosse pane. I viveri caddero nell'affamato e nero oceano. Corsi a riparare il danno con dei pezzi di legno che avevamo di scorta. Appena finii, notai che c'era rimasto pochissimo cibo. Provai a raggiungere i miei compagni per aiutarli, ma la nave sobbalzò, caddi e svenni.  

Venni svegliato da un ragazzo biondo, occhi nocciola e gilet verde. Era Matthew, il mio migliore amico, tale tuttora. Mi disse che la tempesta era passata. Tutti pensavano che fossi caduto in acqua.  

Per fortuna c'erano solo feriti.  

Lo aiutai a portare un po' di cibo in cucina per mangiare. Scoprii che la corrente ci aveva spinto lontano e che quel Colombo non era ancora caduto in acqua. Un po' ci speravo.  

 

Questo viaggio stava diventando una dannazione! Tutti eravamo stanchi, demoralizzati e arrabbiati.  

Ci furono un po' di litigi, lo ammetto.  

Era il sessantesimo giorno di viaggio e fummo costretti a sacrificare due cavalli, uno nero e uno bianco a macchie, per restare in vita.  

Alcuni di noi non ce la fecero.  

Perfino i più duri piansero.  

 

Il settantesimo giorno, stanchi, stressati e tristi, sentimmo un uccello gracchiare. Ci precipitammo tutti sul ponte.  

Un gabbiano.  Questo significava solo una cosa.  

"Terraaaaaa!!!"  

Era il mozzo di vedetta.  

 

Il mare era limpido, colmo di pesci colorati mai visti prima, che ci facevano strada. Tra la confusione generale, vidi lo scorcio di un'isola. Il cielo azzurro ci sorrideva e gli alberi mossi dal vento erano mani che ci salutavano. 

Io e Matthew ci abbracciammo.  

Eravamo salvi. 

 

(Elisabetta Inzillo, classe 2A, Scuola secondaria)